L'uomo e la natura. Dallo sfruttamento all'estetica dell'ambiente (1500-1800)
Ogni giorno giornali e televisione ci propongono il problema dell'inquinamento, della corruzione dell'ambiente naturale, dell'estinzione possibile di qualche specie vivente, delle conseguenze catastrofiche per l'uomo di disboscamenti. Eppure per secoli l'uomo fece il proprio compito di popolare la terra e sottometterla a sè, gli uomini ritennero utile e necessario farsi largo nelle foreste, abbattere gli alberi, bonificare le paludi, cacciare gli animali, convertire i paesaggi umani in insediamenti umani. Quando avvenne quell'inversione dei modi di sentire, ovvero l'insinuarsi del dubbio che quella classificazione del mondo naturale potesse essere la sola, nè la più giusta? Ebbene questa rivoluzione che avrebbe investito tutto il mondo moderno e le società più evolute ebbe una gestazione lunga e radici lontane nel tempo. Si sviluppò tra il Cinque e l'Ottocento e la sua culla fu l'Inghilterra, forse non a caso la prima nazione industriale. Qui, mentre dilagavano le manifatture e le miniere di carbone abborivano uomini e cose, mentre le città si infittivano di una umanità operaia, le classi superiori che beneficiavano della ricchezza prodotta dalle attività industriali cominciavano a immaginarsi una nuova conciliazione con la natura. Le case di campagna, i parchi, i giardini, l'amore per gli animali da compagnia, il bird watching, fino all'autentica venerazione per cani e cavalli, sostanziarono il mito di una uova arcadia, divennero motivo letterario, si trasfigurarono in generi pittorici. Soltanto una mano raffinata e un'intelligenza consapevole della grandiosità del tema potevano cimentarsi con questa sterminata materia; le pagine di Keith Thomas ce ne restituiscono tutta la profondità e il fascino con rara, piacevole eleganza.
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