Rabisch

Rabisch

Quello che si propone al lettore è un capitolo inedito, solo in apparenze "minore", della storia letteraria del Cinquecento in Lombardia. Intestati al nome dei Facchini dell'Accademia della Val di Blenio, i 'Rabish' ("Arabeschi") non hanno infatti goduto né della miglior fortuna toccata nei nostri tempi al Lomazzo scrittore d'arte (l'autore fra l'altro di quel "Trattato della Pittura" che trovò largo riscontro nella cultura manieristica europea), né della tenue attenzione che pure è stata riservata di recente alla sua raccolta di rime italiane, intitolata parallelamente "Grotteschi". Che la ragione sia essenzialmente linguistica, connessa con la difficoltà di intendere anche solo la lettera, è fuor di dubbio: gli sporadici accostamenti, le scarse citazioni, da parte soprattutto degli studiosi d'arte, rivelano significativi fraintendimenti di senso. Ma l'abbandono in cui sono stati lasciati i 'Rabish' discende anche dalla persuasione, già del Biondelli, che il "facchinesco" in cui sono scritti, se non tutti in gran parte, sia una lingua artificiale, fittizia, inventata per gioco: un equivoco favorito forse dalla presenza nella raccolta anche di componimenti scritti in similbolognese o in similbergamasco o in lingua gerga, come i dialetti degli attori della commedia dell'arte, e che soltanto un esame ravvicinato consente di risolvere pienamente, riconoscendo sotto uno spolvero di fatti incoerenti la sostanziale autenticità linguistica del dialetto facchinesco.Aperti e chiusi tra le due grandi pestilenze, del 1576, per non dire dell'altra di meno di cinquant'anni prima, e del 1630 (le pesti di Carlo Borromeo e del cugino Federico), i 'Rabish' editi ora criticamente sulla stampa del Ponzio del 1589 vengono pertanto a costituire un nuovo foglio che si aggiunge alla mappa descrittiva a cui attendiamo da tempo: e non dei meno interessanti, se una raccolta di testi usciti da un'Accademia di artisti di primo piano (pittori come il Lomazzo stesso, figlio di [...]
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