Catania bene. Storia di un modello mafioso che è diventato dominante
Si potrebbe chiamare "Cosa nostra 2.0". Come un fuoco che cova sotto la cenere, sta divorando la legalità nel Paese. Agisce sottotraccia, s'insinua e si mimetizza nell'economia e nella politica, vuole far dimenticare gli anni delle stragi, anzi la sua stessa esistenza. Adotta la strategia dell'"inabissamento" e delle collusioni. Un metodo sperimentato con successo in un contesto forse poco familiare alla memoria collettiva: la Catania dei lontani anni Ottanta. Sebastiano Ardita, magistrato in prima linea nel contrasto al fenomeno mafioso, ci conduce nelle viscere di quella città dai volti contrastanti, con il benessere dei quartieri alti che si contrappone al disagio sociale delle periferie, dove i ragazzi abbandonati al loro destino sono facile preda del reclutamento malavitoso. Una città abitata da gente operosa e intraprendente, ma costretta a subire e indotta a ignorare per troppo tempo la presenza della criminalità organizzata. E in questa realtà che Nitto Santapaola, vincitore della guerra interna alla mafia catanese combattuta tra il 1978 e il 1982, elabora la sua linea operativa nei confronti delle istituzioni, diametralmente opposta a quella di Riina e Provenzano: "Mentre a Palermo i Corleonesi attaccavano lo Stato e ne stimolavano gli anticorpi, a Catania si costruivano relazioni occulte". Un'organizzazione, quella di Santapaola, capace di infiltrarsi nei centri nevralgici del potere della «Catania bene» e di assumere un profilo imprenditoriale e rassicurante, ma spietata con chi si frapponeva al suo cammino, come il coraggioso giornalista Pippo Fava, l'ispettore Giovanni Lizzio, lo stesso prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, che aveva capito quali interessi si muovevano alle pendici dell'Etna.Gli uomini di Cosa nostra catanese si accreditavano come garanti dell'ordine pubblico, fino ad attuare una vera e propria «co-gestione» con le autorità. «Concreti, dediti agli affari e interessati al profitto più che alle forme,» afferma Ardita «essi hanno costruito da sempre un patto con le istituzioni ispirando, da precursori, quella che viene comunemente definita la trattativa Stato-mafia.»Tramontato il dominio dei Corleonesi, il modello ideato dai catanesi si è rivelato vincente e adesso, dopo essersi esteso all'intera Sicilia, ha un progetto ancora più ambizioso, che punta a stravolgere la stessa democrazia: «Ripulitasi dalle scorie del passato, Cosa nostra somiglierà sempre più a una loggia segreta dove tutto fa capo alla finanza, e attraverso di essa potrà portare l'assalto al potere politico. Ne otterrà favori, anche a danno dei contribuenti, e lo finanzierà. E poi servendosi della politica tenterà di influenzare tutti i poteri istituzionali».Partendo dalla Catania di ieri, il saggio di Ardita denuncia con coraggio e lucidità i pericoli che incombono sull'Italia di oggi.