L'Italia non esiste (per non parlare degli italiani)
«L'Italia non è mai stata una nazione, e non lo sarà mai. L'unità d'Italia che pomposamente si festeggia o si dileggia, a seconda delle opportunità politiche, è la più grande catastrofe abbattutasi sulla nostra penisola. I soli ad avvantaggiarsene veramente sono stati i preti, che hanno esteso i confini dello Stato della Chiesa fino a farli coincidere con quelli della penisola. L'Italia unita è un ipertrofico Stato pontificio, dal quale ha ereditato le sue due caratteristiche principali: la corruzione e l'ipocrisia.» Con queste considerazioni Fabrizio Rondolino inizia un'amara e pungente rilettura della storia italiana, nel centocinquantesimo anniversario dell'unificazione. Alla vigilia di quel processo, la penisola offriva esempi di ottima amministrazione, come la Lombardia austriaca, il granducato di Toscana, «faro di cultura e di libertà intellettuale», il regno delle Due Sicilie, che poteva vantare lusinghieri primati internazionali. Oggi, invece, l'Italia arranca nelle retrovie di tutte le graduatorie; penultimi al mondo per tasso di crescita nei primi dieci anni del millennio, dal punto di vista dei servizi, delle infrastrutture e di altri fondamentali indicatori, «siamo a tutti gli effetti un Paese del Terzo mondo». Questo inesorabile declino è il punto di arrivo di un'unificazione forzata e innaturale, di centocinquant'anni di politica corrotta, viziata dal trasformismo, chiusa a ogni innovazione. Siamo un Paese senza classi dirigenti, con una cultura arretrata, provinciale e conformista, segnata per sempre, come tutta la società, dall'impronta del cattolicesimo posttridentino, da una concezione della morale che, con i suoi compromessi e le sue ipocrisie, ha tolto all'individuo ogni senso di responsabilità. Siamo un popolo che sprofonda nei suoi eterni difetti, messi magistralmente a nudo dalla commedia all'italiana: cinismo, indifferenza, amoralità, incapacità di concepire un orizzonte di doveri e un'idea di bene comune che vada oltre i confini della famiglia, della piccola comunità o corporazione. Attraverso una riflessione che passa per Dante e Machiavelli, Leopardi, Manzoni, Prezzolini e molti altri scrittori, l'autore ricostruisce con vivacità la nostra parabola storica. La conclusione è impietosa: l'Italia di oggi, incattivita e piena di rancori, non ha niente da lasciare in eredità ai propri figli, neanche l'allegria e la spensieratezza che un tempo gli stranieri ci invidiavano. In un Paese dominato ormai senza argini e contrappesi da una televisione «di sudditi e per sudditi», nella quale «il rovesciamento dei valori sociali e dell'etica pubblica si compie definitivamente», l'unico motivo di conforto, l'unico freno alla rovinosa discesa verso il basso, è il crescente peso degli organismi sovranazionali nelle decisioni politiche ed economiche. Il resto, l'affannoso rincorrersi di lamentele, recriminazioni, solenni promesse, è solo 'lo spettacolo della decadenza'.
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