Malattia dell'infinito. La letteratura del Novecento (La)
"L'infinito è nemico dell'uomo" dice Joseph Conrad nel romanzo che inaugura la letteratura del Novecento, Lord Jim. La "malattia dell'infinito" è il tema segreto, profondo come un fiume sotterraneo, che Pietro Citati ha scelto per comporre la sua vasta e fascinosa conversazione sulle opere e sulle esistenze dei romanzieri, dei poeti, degli artisti del ventesimo secolo. Il desiderio d'infinito, lo sguardo appuntato al di là dei consueti orizzonti umani, popola di una folla di stranieri la letteratura occidentale. Il pensiero della propria inappartenenza accompagna lo scrittore novecentesco come una musica cupa e in sordina, dando eco e risonanza ai suoi libri. Così, D'Annunzio è "il grande Straniero, che occupava come un dio fastoso e corrucciato le stanze immaginarie del Vittoriale"; Robert Walser è un escluso che bussa e bussa alla porta della vita; Pirandello "uno straniero in un luogo straniero"; Robert Musil ha la sensazione che "tra lui e il mondo si fosse stabilita per sempre ... una montagna di ghiaccio"; Marina Cvetaeva "aveva deciso di essere straniera sulla terra, come una gnostica"; Gottfried Benn è un "abitatore di stanze singole ... che vive abbandonato al silenzio e al ridicolo". Persino Giorgio Bassani, un autore che a lungo sembra conservare "la grazia e la gioia di vivere delle persone normali", diventa quasi all'improvviso "quello che non sapeva di essere: un ebreo, un paria, uno straniero". L'artista del Novecento - che sia uno scrittore, o un regista come Dreyer e Chaplin, o un ballerino come Nijinsky - abita la tenebra, racconta l'ombra, la follia, la debolezza, la morte. Uno dei numi tutelari del secolo, Carl Gustav Jung, "comprese che il mondo della luce non era fatto per lui: doveva abitare nel mondo della notte"; Fernando Pessoa, come tutti i grandi poeti moderni, "ascoltava il mare di Tenebra"; Virginia Woolf deve "discendere, gradino per gradino, nel pozzo, nelle acque profonde, negli abissi delle tenebre e della follia ... sfruttare l'ombra ... affondare di nuovo nella tenebra, trovando in essa la ragione e il fondamento della sua arte". Karen Blixen sembra a tratti devota alla riconciliazione, all'armonia del mondo, ma poi conferma anch'essa, negli enigmatici finali dei racconti, il suo invincibile attaccamento alle ironiche divinità dell'ombra. Come forse non ha fatto in nessuno dei suoi libri precedenti, nella "Malattia dell'infinito" Pietro Citati parla anche di sé. In un saggio su Hofmannsthal nasconde la più precisa definizione breve che si possa dare del suo metodo di scrittore e di critico: "Un'anima squisita e melanconica si introduceva nelle cose: per un momento, provava un brivido davanti al mondo estraneo; e poi, lentamente, con arti da polipo e da ragno, se ne appropriava, lasciando sulla carta una bella forma ibrida, che in parte aveva i colori di Hofmannsthal in parte i colori del libro o dell'oggetto nei quali si era insinuato". Nei saggi affettuosi, commossi, maliziosi dedicati agli amici che ha avuto, con cui ha lavorato (fra tanti: Cioran, Fellini, Gadda, Fruttero e Lucentini, Calvino, Manganelli, Bertolucci), ci dà, sospettiamo, quanto di più prossimo a un'autobiografia sia lecito aspettarsi da questo scrittore che da sempre tenta di scomparire dietro l'impersonalità del saggista.