Quello che resta
C'è il tocco di una splendida grazia disarmata e inquieta in queste nuove poesie di Giuliano Gramigna, che sembra trarre dalla vecchiaia il miracolo di una semplicità profonda e di un'impressionante lucidità di sguardo sulle cose. Il poeta considera, come dice il titolo, 'quello che resta', vede l'esistere come un mediocre residuo, e prende nota degli strani barlumi di senso che gli pervengono dal presente o dalla memoria. Ma la bellezza e la forza di questi suoi versi sono anche nella leggerezza elegante del tono, nel controllo perfetto di un linguaggio la cui esattezza discreta corrisponde a una rara solidità morale. Gramigna parte da una seduta d'analisi, fa riemergere "i capelli ritti" e "gli occhiali spiritati" del "dottor Lacan". Ma si muove anche con infaticabile affetto per le vie di Milano, di cui ci offre scorci indimenticabili, vedendo se stesso camminare un po' incerto, d'accordo, ma sempre con estrema dignità. L'ironia, le infinite letture e un'intelligenza vivissima lo guidano in questo andare turbato tra le mura di casa e un paesaggio urbano dal quale si può veder sbucare un tram il cui numero sembra indicare proditoriamente gli "anni / che restano da vivere". E in questo confronto ravvicinato e costante con la morte, Gramigna riesce ad afferrare il sentimento del lettore, con improvvise lacerazioni che intaccano la compostezza ingannevole del testo, perché difendersi non serve, perché viene ormai a cadere "anche l'acre / resistenza alla emozione".
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