La tragedia dei comunisti italiani
Unione Sovietica, anni Venti e Trenta. Centinaia di italiani, uomini e donne, a volte intere famiglie, arrivano a Mosca. Sono comunisti, iscritti al Pci e attivi nella lotta antifascista, socialisti e anarchici. Spesso la partenza è l'estrema risorsa di un'esistenza alla macchia, talvolta è una scelta: nella Russia rivoluzionaria gli emigranti vedono, infatti, 'la terra promessa'. In altri casi, invece, è il partito a spedire in Urss i propri militanti. Si andava in Russia con entusiasmo, pieni di fiducia; giunti a destinazione le delusioni erano fortissime perché tutto era ben lungi da come la stampa comunista occidentale aveva fatto credere. Al di là della fatica del lavoro in fabbrica, del razionamento dei generi alimentari, i rifugiati politici, persino i più noti e autorevoli antifascisti, si accorgono di essere controllati dall'Nkvd ma anche dai dirigenti del Pci, Togliatti in primis. Comincia così per gli italiani la vera tragedia. In un clima di sospetto crescente si consuma la loro condanna senza appello: dall'arresto agli interrogatori-farsa, alla deportazione, ai lavori forzati in Siberia, al plotone d'esecuzione. Molti di loro non faranno ritorno, molti furono riabilitati dopo il 1956. Chi fece ritorno e tentò di raccontare cosa fosse accaduto non fu creduto e i suoi diari rimasero in fondo ai cassetti per essere a lungo dimenticati. Un libro che formula accuse precise contro il gruppo dirigente del Pci dell'epoca e contro la congiura del silenzio che tuttora persiste.
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