Le filippiche
Meno di un mese dopo le fatali idi di marzo, forse fra il 6 e il 7 di aprile 44, Cicerone decise di allontanarsi da Roma. Era ormai svanita in lui ogni speranza che l'uccisione di Cesare potesse segnare il ritorno a quell'equilibrio di diritti, di doveri e di funzioni - "potestas in magistratibus, auctoritas in principum consilio, libertas in populo" - di quella "vetus res publica", della quale lui, Cicerone, dopo la morte di Pompeo e di Catone, era rimasto il piú autorevole, se non l'unico, rappresentante. Il suo nome, infatti, avevano gridato i congiurati, alzando i pugnali intrisi del sangue di Giulio Cesare; e il suo nome facevano gli stessi avversari, come quello del capo della congiura. Quel giorno il vecchio consolare s'era affrettato a raggiungere i congiurati sul Campidoglio, per ringraziare, insieme con essi, gli dei, ma anche per attendere gli sviluppi della situazione ed apprestarsi, se necessario, alla difesa. Dal Campidoglio era disceso il giorno seguente, con una grande speranza nel cuore: il fatto che per il 17 marzo il console Marco Antonio avesse convocato il senato, significava l'inizio di una restaurazione costituzionale? Comunque, bisognava cogliere l'occasione, ma procedere, a un tempo, senza rigidezza, se mai con qualche arrendevolezza, tanto piú che il console aveva, sì, convocato il senato, ma aveva anche messo le mani sulle carte di Cesare e sui settecento milioni di sesterzi da questo depositati nell'erario, per la spedizione contro i Parti. (Dall'Introduzione di Bruno Mosca) Orientamenti bibliografici a cura di Cristina Borgia.