I violini del diluvio
Da alcuni anni a questa parte - dall'inizio, più o meno, degli anni Ottanta - Toti Scialoja viene adibendo il gioioso splendore delle sue macchinazioni verbali (nate, chi non lo ricorda?, come "posie per bambini", nel segno della grande tradizione nonsensica inaugurata da Edward Lear e da Lewis Carroll) ai bisogni di un'ispirazione sempre più amara, sofferente e notturna, alla cattura di sempre più adulte inquietudini e mestzie. Nelle cinque sezioni, mirabilmente articolate e compatte, dei Violini del diluvio, questo mutamento sembra aver toccato il punto di una compiutezza fatale. La perfetta, enigmatica leggerezza e sfericità delle metafore, la gabbia eterea e invalicabile formata dal gioco delle rime, delle assonanze, delle allitterazioni, dei rimandi anagrammatici racchiudono ormai all'interno della loro radiosa trasparenza i bozzoli o le spoglie di tutte le angosce, di tutti i terrori.
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