Filò. Per il Casanova di Fellini
Nel luglio del '76, prima di iniziare il doppiaggio del suo Casanova, Federico Fellini scriveva ad Andrea Zanzotto, sottoponendogli problemi e propositi che riguardavano il dialetto veneto e il suo uso nel film. E faceva una precisa richiesta a Zanzotto, quella di scrivere l'"esortazione", la "preghiera accorata e beffarda impaurita e sfottente" che avrebbe accompagnato la scena iniziale del film: un rito, l'emergere dal Canal Grande (e poi lo sprofondarvi) di una gigantesca testa nera di donna. Zanzotto raccoglieva l'invito e ne nasceva questa Filò che, come ha scritto Gianfranco Contini, "appartiene al repertorio più singolare della poesia dialettale...".Il libro si articola in tre parti, di cui le prime due sono comprese nel film: il Recitativo, pronunciato in una Venezia tra sogno e incubo; e la Cantilena londinese, filastrocca in cui riappare e domina il linguaggio infantile, il zanzottiano petèl. Segue poi il vero e proprio Filò, parola che significa, come spiega l'autore: "veglia di contadini, nelle stalle durante l'inverno, ma anche interminabile discorso che serve a far passare il tempo e a nient'altro...".Zanzotto aveva già usato saltuariamente il dialetto in precedenza, ma quest'occasione gli ha dato modo di comporre in veneto un intero capitolo molto importante e fino allora inedito della sua opera poetica. E gli ha suggerito, o gli ha imposto, di spostarsi nel contiguo campo di una riflessione più complessa e radicale, più articolata e fitta. Quella, appunto, del vero e proprio Filò, dove l'incalzare, il dilatarsi e il continuo rifrangersi del pensiero poetico, si esprime e riformula nella straordinaria energia della parola, sempre così riconoscibile, inventiva, stratificata in Zanzotto, anche quando espressa in altra lingua. In questa terza parte del libro, il suo tema è infatti quello del dialetto stesso nella sua espressività profonda e cangiante, nella sua nuova essenza orale-oracolare.
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